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«Ricordo come fosse ieri il via vai di tedeschi al bivio delle Zuane, davanti a casa mia, negli ultimi giorni di guerra. Ho visto passare migliaia di soldati. A bordo di camion e camionette, con cavalli, con moto, in bicicletta battevano in ritirata per risalire la Valdadige e raggiungere la Germania. Un giorno scorgemmo un tedesco il quale, sbracciandosi da un camion, ci salutò. Riconobbi in quel volto Giacomo, Jacob, uno studente in ingegneria che ben conoscevo. Alcuni mesi prima aveva infatti familiarizzato con noi, quando presidiava un magazzino di casermaggio ricavato nell’abitazione dei Caldana, nostri vicini. Quel ragazzo era diventato quasi uno di casa, mangiava spesso con noi. E pensare che mio padre era un convinto antifascista». A rievocare quei movimentati e drammatici momenti è Giuseppe Castellani, novant’anni compiuti in splendida forma residente a Chivasso, all’epoca ragazzino tredicenne abitante nella frazione di Rivoli Veronese, le Zuane appunto, dove era nato il 4 agosto 1932.
Il toponimo Zuane, allora come oggi, comprendeva quattro nuclei abitati: il più popoloso, Zuane Contrà, o contrada, lungo la salita per le Cristane; Zuane Brenzone, sul pianoro antistante ai primi rilievi dell’anfiteatro morenico; Zuane Montagna, costituito da due corti rurali seicentesche; e Zuane Osteria, al bivio per Caprino-Spiazzi e per la Valle dell’Adige, in quel tempo due soli caseggiati, uno dei quali sul confine tra il Comune di Rivoli e quello di Caprino, ma appartenente a quest’ultimo. Quel bivio nei giorni della Liberazione fu teatro di sanguinosi eventi.
«Due case soltanto, eppure erano il
capoluogo delle Zuane perché lì c'era l'osteria», sorride Castellani lasciandosi andare per due ore a rievocare episodi, date, personaggi di quell’epoca che segnò la fine delle atrocità della guerra e l’inizio della speranza collettiva e della ricostruzione.
La sua storia è emblematica di tante altre storie vissute da coloro che dopo la seconda guerra mondiale hanno lasciato Rivoli per emigrare nelle metropoli del Nord o in Europa od Oltreoceano.
Prima della sua generazione, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, centinaia di rivolesi, spinti dalla miseria e dalla fame, se ne erano andati dal paese per cercare fortuna. L’ “emigrazione interna” in Piemonte di Giuseppe avvenne un po’ per caso un po’ per una precisa volontà.
«Due case e cinque famiglie», continua il racconto. «Accanto a noi il Bigeti Caldana. Io ero molto affezionato a suo figlio Bruno, fabbro, classe 1914, caduto in Russia. Di là dalla strada Gina Villa, che gestiva l’osteria, con i figli Renzo e Italo, meccanico di biciclette; il sarto Amedeo Bettinazzi mio cognato, avendo sposato mia sorella Maria; e Alberto Modena con la moglie Celestina, genitori di Gemma moglie di Renzo Villa. Avevo una sorella e un fratello: oltre a Maria, nata nel 1926, Nello, del 1929. Mia madre era una Testi, si chiamava Albina ed era del 1903. Mio padre Albino, classe 1897, durante la prima guerra mondiale aveva combattuto sul Carso e alla Marna nel Battaglione degli Arditi. Quante ne ha passate quel pover’uomo per le sue idee! I fascisti di Rivoli, nei primi tempi della dittatura, gli fecero bere l’olio di ricino. Per non fare altri brutti incontri durante il ventennio non volle più mettere piede in paese. Preferiva andare a Caprino, il sabato per il mercato, la domenica per la messa».
Erano anni duri e Giuseppe, appartenente a una famiglia povera di mezzadri che lavoravano un fondo tutto sassi di proprietà dei Ronzetti di Pastrengo, aveva tanta voglia di studiare. Con grandi sacrifici i genitori, dopo le elementari, lo mandarono a scuola dai Salesiani ad Albaré. «Frequentai la prima media nell’anno scolastico 1944-1945», prosegue, «ma i miei non potevano pagare la retta, così ricorsi a uno stratagemma: manifestai il desiderio di farmi prete, in modo da frequentare i due anni successivi gratuitamente da collegiale. In cambio ero tenuto a svolgere piccoli lavori quali le pulizie dei locali e servire a tavola. Dopo le medie mi iscrissi all’Itis di Verona. Tutte le mattine all’alba andavo a piedi al Battello, attraversavo l’Adige con la barca, prendevo il treno a Ceraino e nel pomeriggio di nuovo a casa. Un bel giorno, dopo due anni, mia mamma mi prese da parte e mi disse: “Senti Giuseppe, non ce la facciamo più a mantenerti”. Fu così che dovetti sospendere gli studi. Nel 1950 mi arruolai nella Marina come elettricista. Quell’esperienza e la professione imparata mi portarono definitivamente lontano da Rivoli».
Infatti il giovane Castellani, dismessa la divisa da marinaio, nel 1957 trovò lavoro alla centrale termoelettrica di Chivasso, gestita dalla SIP, Società idroelettrica piemontese (nel 1964 diventata Società per l’esercizio telefonico). Ma la sua voglia di studiare era rimasta viva, tanto da indurlo a riprendere di lì a qualche tempo gli studi. In tre anni, profittando dei turni di lavoro che gli permettevano di avere la mattina libera, tornò in classe e completò il ciclo interrotto a Verona. «Mi faceva una certa impressione, a 38 anni, trovarmi accanto a ragazzi tanto più giovani di me»,confessa. «Mi diplomai ma il desiderio di proseguire era forte. Mi iscrissi alla facoltà di Scienze politiche all’Università di Torino, per allargare il campo delle mie conoscenze. Mi sono laureato a 45 anni. Questo traguardo è stato motivo di grande orgoglio».
Raggiunta l’età della pensione Giuseppe Castellani non si è fermato, per molti anni è stato impegnato in attività sindacali e di volontariato. «Ho smesso di andare in ufficio a 85 anni», dice. «Ho avuto una fortuna durante la mia intensa vita: mi è sempre stata accanto Maria, donna meravigliosa che mi ha dato un figlio, Lorenzo. Purtroppo è mancata nel marzo 2021, un dolore incolmabile. Non è stata soltanto una moglie, ma anche una compagna e, direi, un’amante».
Ma torniamo ai ricordi degli anni rivolesi. Come quello di una furibonda rissa avvenuta nel 1936 all’osteria della Gina. «Avevo soltanto quattro anni. Ero in casa con mia madre e lo zio Gaetano. All’improvviso sentimmo delle urla provenienti dall’osteria, dove – seppi più tardi – era nata una lite tra mio padre e un gruppo di fascisti che sparlavano di mio nonno Giuseppe per una storia di confini. Il nonno non era presente e mio padre disse: “Se avete qualcosa da dire prendetevela con me”. Dalle discussioni si passò alle mani, uno contro tutti. Vidi uscire di corsa la mamma e lo zio impugnando dei bastoni per dar manforte a papà. Volarono botte da orbi. Nel parapiglia ci furono alcuni contusi ed essendo la prognosi stilata dal medico condotto Francesco Zuffellato superiore a 10 giorni scattò la denuncia obbligatoria. Papà, mamma e zio finirono a processo con l’accusa di avere offeso il Duce. Il capo d’imputazione fu derubricato e fortunatamente vennero assolti. Ricordo il giorno in cui tornarono dal Tribunale di Verona, mi portarono in regalo una trombetta di latta».
Il racconto di Castellani permette di fare luce con maggiore precisione su alcuni tragici fatti accaduti all’osteria delle Zuane e nei dintorni durante i giorni della Liberazione, da me ricostruiti per la prima volta nell’opera «Riole Novecento. Un paese e la sua gente» (volume secondo, pagine 50-56). Gli episodi di cui egli è stato testimone oculare, all’età di 13 anni, inducono a una riflessione sulla reale portata del movimento partigiano a Rivoli. «Gli unici partigiani che io ho visto dalle nostre parti, nell’inverno 1944-45, venivano dal Vicentino. Erano 21, tra loro c’era anche una donna. Una sera entrarono a casa nostra e chiesero da mangiare. Mia madre fece la polenta, si fermarono qualche ora, poi alle 3 di notte ripartirono diretti nel Bresciano. A Rivoli non ho mai visto una vera ribellione partigiana organizzata contro i tedeschi. Nei giorni della Liberazione, è vero, ci furono alcuni episodi di sparatorie da parte degli abitanti della zona, con armi distribuite dal CLN. Anche a mio padre era stato consegnato un moschetto, secondo me era della prima guerra mondiale. Se ne servì, ma non apparteneva ad alcun gruppo partigiano».
Ed è proprio su quanto avvenne in quei giorni che si sofferma Castellani, in particolare sugli episodi ricostruiti, nel libro citato, attraverso le interviste a Olga Veronesi, Stella Todesco e Giuseppina Pachera. Anzitutto l’atroce esecuzione con un colpo di rivoltella alla testa, nel pomeriggio del 27 aprile 1945, di Giuseppe Veronesi, abitante nella vicinissima località Pissabò, e Alberto Modena, abitante – come abbiamo visto – nel caseggiato dell’osteria. Due inermi cittadini che si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Prima di loro, nella mattinata, aveva subìto la stessa sorte un altro rivolese, Francesco Sartori, 81 anni, abitante in località Ragano. Verso sera, a Ca' di Sopra di Canale, una quarta vittima, Gino Dei Micheli, il cui corpo venne gettato nell'Adige.
Ecco quanto accadde verso le 16 di quel giorno di terrore. «Ero nel cortile davanti a casa quando vidi arrivare, dalla strada per Caprino, una camionetta con due soldati tedeschi. A bordo c’erano anche due uomini della zona, Giuseppe Acerbi e Silvio Aliprandi, evidentemente catturati poco prima. La camionetta si fermò, uno dei due tedeschi scese e si diresse verso il cancello di legno che portava nel cortile dell’osteria. Il cancello era chiuso. Nel cortile c’erano Modena e Veronesi, che aprirono il cancello. Il militare intimò loro il “mani in alto” e i due vennero perquisiti. Vidi chiaramente il militare estrarre da una tasca di Veronesi un piccolo oggetto luccicante giallo. Non era un accendino, secondo me era un bossolo o una pallottola, essendo l’uomo guardia giurata al Forte. Un istante dopo vidi Modena e Veronesi cadere a terra, uccisi con due colpi di rivoltella alla testa. La camionetta proseguì verso la Valdadige con a bordo Acerbi e Aliprandi. Nei pressi della Guglia vennero fatti scendere per essere giustiziati: il primo venne colpito a morte, il secondo, ferito di striscio, riuscì a salvarsi. Sono stato testimone anche dell’uccisione dell’ufficiale tedesco alla Ca’ del Lia», prosegue Castellani. «Il fatto accadde non il 27 aprile ma tre giorni dopo, il 30 aprile mattina. Quel giorno un piccolo corteo – eravamo una decina di persone o poco più – accompagnò a Rivoli per i funerali le bare trasportate a spalla con i corpi di Modena e Veronesi. Poco prima alcuni uomini, tra i quali mio padre, avevano catturato un capitano tedesco e un secondo soldato ferito. Fu mia madre a medicarlo, fasciandogli la testa con una benda. I due vennero scortati in coda al corteo per essere consegnati al presidio del CLN comandato da Berto Simeoni. A 200 metri da Zuane, in località Ca’ del Lia, incrociammo alcuni uomini provenienti da Rivoli, tra i quali Elio Pachera. In quell’istante, dalla stradina di Zuane Contrà dove abitava, arrivò il contadino Giuseppe Festa, detto Bepo, che riconobbe nel capitano l’uomo che voleva rubargli la bicicletta. Si avvicinò a lui per prenderlo a pugni, ma Pachera lo fermò dicendogli – ho scolpite nella memoria ancor oggi quelle parole – “Bepo, tìrete en parte”, scòstati. E partì una raffica di mitra, forse per errore. Il cadavere fu dapprima sepolto tra le robinie e dopo qualche giorno trasportato al cimitero di Rivoli».
Castellani ricorda anche la mattina in cui arrivarono gli americani, il 28 o il 29 aprile, dopo che i tedeschi avevano fatto saltare il ponte sul canale Biffis. Quel giorno transitò dal bivio delle Zuane una corriera sulla quale viaggiavano alcuni ufficiali e soldati tedeschi, ignari del fatto che la strada per la Valdadige era interrotta. «Lì vicino c’era un contadino, Luciano Aliprandi, che aveva con sé un moschetto, con il quale si mise a sparare in aria gridando, con una certa dose d’incoscienza, “partigiani, partigiani, a me!”. Richiamati dagli spari accorsero alcuni uomini dall’osteria, circondarono armi in pugno la corriera, i soldati vennero catturati e accompagnati al comando del CLN a Rivoli. “Guardate che dietro di noi c’è una colonna”, dissero i tedeschi per farci paura. In fretta e furia venne collocata una mitragliatrice a una finestra dell’osteria. In effetti poco dopo vedemmo arrivare una colonna di automezzi militari. Partì una breve raffica di mitra, subito sospesa perché ci si accorse che non erano tedeschi bensì americani. Venne colpito di striscio il comandante, unico bianco a capo di una colonna composta da soldati neri. Era la prima volta che vedevo uomini di colore».
Sono trascorsi 78 anni dall’aprile 1945. Oggi per la prima volta conosciamo nel dettaglio avvenimenti che furono determinanti nella formazione di quel ragazzo intraprendente e sognatore che dopo la guerra lasciò per sempre Rivoli. «Gli episodi di cui fui testimone oculare», conclude Giuseppe Castellani «hanno formato profondamente la mia coscienza, ispirata ai valori della tolleranza, dell’uguaglianza, della pace».
Tolleranza, uguaglianza, pace. Quanto bisogno c'è oggi di questi valori...
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