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Ottavio  Lorenzini,  100  anni  vissuti  con  passione

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di Gino Banterla

Non ha fatto in tempo, Maria Pachera, a festeggiare il secolo di vita del marito Ottavio Lorenzini. Se n’è andata il 14 maggio 2022, due giorni dopo aver compiuto 93 anni. Ottavio taglia il traguardo dei 100 senza di lei, tre mesi dopo, il 12 agosto, festeggiato dai parenti e da tutto il paese d’adozione, Rivoli Veronese. Abita qui da 39 anni, da quando è andato in pensione. È un portento della natura Ottavio, grazie a uno stile di vita rigoroso e metodico che gli ha garantito piena salute e una memoria di ferro, fuori dal comune.

Aveva conosciuto la Maria, l’adorata Mariuccia, nel 1949.  Nella piccola officina di riparazione delle biciclette che dopo la guerra aveva messo su a Dolcè, suo paese natale, aveva sentito molto parlare di quella bella ragazza di Canale, figlia di Albino Pachera, che gestiva l’osteria nella frazione di Rivoli. Dopo tre anni passati a riparare biciclette – le cose non andavano bene perché spesso la gente non pagava il conto – Ottavio trovò lavoro a Bolzano. Un posto fisso alla Montecatini e la paga assicurata a fine mese. Ma ogni fine settimana tornava a Ceraino, frazione di Dolcè, dove la famiglia si era trasferita negli ultimi mesi di guerra e dove il padre Giovanni Battista detto Nane, ferroviere, lavorava nella stazione locale, dopo essere stato carabiniere: fu uno dei primi soccorritori dopo il terremoto di Messina del 1908.  Il pensiero della figlia dell’oste di Canale era ben fisso nella mente di Ottavio. Una bella domenica d'aprile si decise. Prese la bicicletta, attraversò l’Adige in barca al Battello e raggiunse quell’osteria. Dietro al bancone c’era proprio lei. Ordinò una birretta, la ragazza gliela servì con premura. Un po’ di convenevoli, qualche sguardo complice e l’impegno a tornare la domenica successiva. Fu amore a prima vista. Le domeniche degli incontri tra Ottavio e Mariuccia si moltiplicarono. Fino al 10 gennaio 1953, quando nella chiesa di San Luca a Canale il parroco don Angelo Faccini li unì in matrimonio.

Alla vigilia del suo centesimo compleanno Ottavio parla della sua vita e dei suoi ricordi in una torrida mattina agostana mitigata dal vento che soffia da settentrione. Lo accompagniamo, assieme alla nipote Loredana Campostrini, nella sua consueta passeggiata in piazza, poi lungo la ripida stradicciola che porta giù alle antiche fontane. Da qui la vista spazia sul Forte, simbolo di Rivoli, su Ceraino, sulla Chiusa. Già, la Chiusa, come la chiamiamo? In una tacita gara di campanilismo a volte la si cita come Chiusa di Rivoli, altre volte come Chiusa di Ceraino. I luoghi cari a Ottavio, il quale “appartiene” alle due sponde del fiume. Sono corrette entrambe le denominazioni in verità: il lato a destra Adige è nel Comune di Rivoli, quello di sinistra è nel territorio di Ceraino, Comune di Dolcè. Mettiamoci d’accordo una volta per tutte: chiamiamola Chiusa Veneta, come in alcuni libri di storia e geografia, denominazione che ci riporta alle memorie della Serenissima Repubblica, quando qui si pagava dazio per le merci provenienti dal Tirolo.

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Ottavio e Mariuccia sposi, Canale 10 gennaio 1953.

Il vento ha reso il cielo terso e Ottavio cammina in quei luoghi familiari con passo fermo e deciso. Non c’è bisogno del bastone, anche se la salita dalle fontane richiede una certa attenzione per via dei ciottoli con cui è lastricata la strada. Raggiunta la sua casa in via Vigo, dove abita – puntigliosamente ricorda la data precisa – dal 17 febbraio 1983, Ottavio si racconta per un’intera mattinata. È come un fiume in piena: aneddoti, date, il servizio militare durante la guerra, la geniale trovata con la quale riuscì a sfuggire alla deportazione in Germania, il lavoro prima alla stazione di Ceraino, poi a Bolzano alla Montecatini, il ricordo dell’Adige ricco di pesci negli anni Trenta, quando la portata delle acque era doppia rispetto a quella d’oggi, poiché il canale Biffis non era ancora stato costruito.

Ottavio Lorenzini dunque nasce a Dolcè il 12 agosto 1922. Qui frequenta le scuole elementari, fino alla quinta. Ha un fratello, Floriano, del 1919, e due sorelle, Carolina, nata nel 1915, e Adalgisa, del 1931. Da ragazzino comincia a fare dei lavoretti in campo elettrico.

Chiamato alle armi nel 1941 viene arruolato nell’Artiglieria alpina. Si trova a Merano, dove ha frequentato un corso di assistente infermiere, l’8 settembre 1943, quando dopo l’armistizio scoppia il finimondo. «Mi sono dato alla fuga come sbandato con un gruppo di commilitoni», racconta. «Una settimana di paura e di stenti durante la quale mi sono nutrito solo di mirtilli. Abbiamo raggiunto a piedi Rabbi, in Val di Sole. Con i pochi soldi che avevo in tasca ho comprato patate e un vestito da civile e sono riuscito a prendere il treno a Mezzocorona. Arrivato a Dolcè ho raggiunto i miei che qualche anno prima avevano preso in gestione l’albergo all’Àncora. Avevano quattro camere, occupate dai tedeschi, che di sera erano ubriachi fradici e facevano gazzarra sparando in aria con le pistole. Mia madre e mia sorella erano terrorizzate. Fu allora, a novembre, che papà decise di passare la gestione dell’albergo ad altri. Ci trasferimmo a Ceraino, in una casa presa in affitto da Stella Manzelli. Lì ho cominciato a lavorare alla stazione ferroviaria, mi occupavo di congegni elettrici, fino a quando Badoglio non richiamò alle armi la classe 1922. Io non mi presentai. Venni preso dai carabinieri e portato a Verona. Dovevo scegliere: o essere deportato in Germania o lavorare con i tedeschi. Scelsi di lavorare con loro».

Prosegue Ottavio: «Trascorsi due mesi a Verona. Eravamo in 200 e venivamo impiegati nelle riparazioni della ferrovia colpita dai bombardamenti alleati. Con me c’erano personaggi come Giorgio Gioco, il patròn del celebre ristorante Dodici Apostoli, il gioielliere Bonner, il professor Leardini di Caprino. Da Verona venni trasferito a Erbè, in una squadra addetta alla riparazione delle linee telefoniche. Ma io, grazie all’esperienza di aiutante di sanità a Merano, fui affidato all’infermeria per seguire i soldati italiani ammalati. Dopo altri due mesi venni trasferito con lo stesso incarico a Sant’Agata Bolognese, e dopo ancora a Fontanellato, in provincia di Parma. I tedeschi qui ci regalavano periodicamente pacchetti di sigarette. Io, non fumatore, le mettevo da parte. Quando ne ebbi una valigia piena scrissi a mio padre, lui sì fumatore, chiedendo di venire a prenderle. Cosa che lui fece. Mi portò anche il berretto e la divisa da ferroviere, nel caso fossero servite. Da Fontanellato venimmo condotti di nuovo a Erbè, ma solo per qualche giorno. Era il 2 agosto 1944 quando, verso mezzogiorno, a bordo di un camion fummo trasferiti alla stazione ferroviaria di una località sconosciuta e fatti salire su un treno, sulla linea di Tarvisio. A mezzanotte il treno si fermò, eravamo digiuni da 12 ore e ci diedero qualcosa da mangiare. Ebbi un colpo di genio. Indossai la divisa da ferroviere che mi aveva portato mio padre e scesi dal treno. I miei compagni mi dicevano: sei matto Cerain, i tedeschi ti uccideranno. Non li ascoltai: finsi di controllare le ruote dei vagoni, senza destare pertanto alcun sospetto nei tedeschi che presidiavano il convoglio. Con questo stratagemma evitai la deportazione, perché quel treno era diretto in Germania».

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Inizia una nuova odissea. Nella notte Ottavio vaga nei campi, fino al mattino, quando incontra una donna che sta andando a prendere il latte da un contadino. Le chiede come raggiungere Verona. «Lei mi prese in simpatia e mi accompagnò a casa sua» ricorda, «dove c’era il marito, macchinista delle ferrovie. Fu lui a darmi le indicazioni, ma dopo una lunga camminata avvistai nei pressi di un ponte su un torrente un posto di blocco di fascisti e tedeschi. Riuscii ad eludere il controllo attraversando il torrente poco prima del ponte. Avevo gli abiti fradici quando incontrai un ragazzo, uno studente, che mi accompagnò a casa dei suoi per qualche ora. Mi diedero da mangiare pane e salame. Ricordo come fosse ieri quel gesto. Durò otto giorni la mia peregrinazione. Riuscii infine a prendere avventurosamente il treno per Verona e da qui il trenino per Caprino, scendendo a Ponton, dove mi rifugiai a casa degli zii per un paio di mesi. Ma non furono certo giorni tranquilli. Durante un rastrellamento dei tedeschi sfuggii per un soffio alla cattura nascondendomi tra i cespugli lungo un fosso. Anche quella volta riuscii a farla franca e ad evitare di finire ai lavori coatti nella TODT».

A Ceraino tira una brutta aria, la stazione è presidiata da un fascista e da un tedesco.  Ottavio si nasconde a Ruina con il fratello Floriano. Il tedesco chiede a loro padre: ma i suoi figli sono partigiani? No, risponde lui. Hanno paura dei fascisti. Il tedesco tranquillizza papà Lorenzini e ottiene dal suo comando un lasciapassare, grazie al quale i due fratelli possono recarsi a lavorare per le riparazioni lungo la ferrovia danneggiata dai bombardamenti. Vicino a Ruina, in località Muttei, c’è la contraerea che nulla riesce a fare il 21 novembre 1944 quando una formazione di caccia americani prende di mira un treno tedesco carico di tritolo fermo a Volargne. Il convoglio salta in aria, provocando 64 morti. Ottavio è testimone di quei drammatici attimi. «Vidi cinque aerei scendere in picchiata in direzione monte San Marco e da qui virare verso la Chiusa», ricorda. «Mi arrampicai su un ulivo per vedere che cosa stava succedendo. Gli aerei in pochi secondi superarono Ceraino e la Chiusa. Fu il secondo caccia a colpire il treno. Sentii un boato tremendo e vidi una montagna di fuoco alzarsi nel cielo. Aggrappato all’ulivo potei resistere all’onda violenta dello spostamento d’aria».

Finita la guerra e dopo aver fatto, come abbiamo visto, il meccanico di biciclette per tre anni Ottavio Lorenzini, grazie anche all’esperienza maturata alla stazione di Ceraino, nel 1949 trova lavoro a Bolzano, prima con la Brown Boveri, per conto della Montecatini, poi presso la centrale Montecatini stessa, in un periodo caratterizzato da un forte sviluppo tecnologico in campo elettrico. Conquistata la fiducia del capocantiere, Ottavio si distingue per ingegnosità e capacità creativa. Gli viene affidata la realizzazione di nuove innovative cabine elettriche, e risolve grandi problemi tecnici relativi ai cavi ad alta tensione, diventando addirittura artefice di un brevetto. Rimane alla Montecatini come capo-officina elettrica fino al 12 agosto 1983.

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Giulia Salvetti, madre di Ottavio Lorenzini, con l'attore Henri Vidal durante le riprese di "Fabiola" e la locandina del film.

Tra i ricordi di Ottavio ce n’è uno particolarmente lieto. Una mattina d’autunno 1947 sua madre Giulia Salvetti sta andando alla fontana a prendere l’acqua portando due grandi secchi con la gerla sulle spalle, come s’usava allora. Poche centinaia di metri che percorreva ogni giorno, in quei duri tempi del dopoguerra quando ancora non c’era l’acqua corrente nelle case e il ricordo dei tragici bombardamenti su Ceraino, Rivoli, Volargne faticava ad allontanarsi dalla memoria. Ad un certo punto la donna incontra un signore distinto, un po’ tarchiato e con i baffetti ben curati, che va in direzione opposta, la saluta, la osserva attentamente. Lei prosegue verso la fontana, lui si ferma e si gira per vederla camminare. Pochi secondi e la donna incuriosita si volta di scatto, lui le chiede: «Signora, vuole fare la comparsa in un film?». La donna casca dalle nuvole, forse non sa neppure che cosa significhi il termine “comparsa”. Dopo un attimo di esitazione replica imbarazzata in dialetto: «No, no siòr, devo andar a casa a far da magnàr a me fiòl». Lui insiste: «Non si preoccupi signora. Vengo io più tardi a casa sua con i miei assistenti, le spiego tutto: di che cosa si tratta, che cosa deve fare, come vestirsi. Il costume glielo diamo noi e lei dovrà fare esattamente ciò che le dirò io». E così fu.

L’uomo che aveva incontrato era nientedimeno che Alessandro Blasetti (1900-1987), il grande regista che in quei giorni stava facendo i sopralluoghi per girare sulle due sponde dell’Adige vicino alla Chiusa le scene iniziali di Fabiola, ambientato nel IV secolo e tratto dall’omonimo romanzo scritto nel 1854 da un cardinale, Nicholas Wiseman, amministratore apostolico a Londra e poi arcivescovo di Westminster. La pellicola passò alla storia del cinema perché fu il primo kolossal italiano, che segnò il riscatto dell’industria cinematografica dopo i primi splendori di Cinecittà in epoca fascista, interrotti dalla guerra, aprendo la strada a film di grande richiamo popolare quali Quo vadis, Barabba, Ben Hur.

La produzione italo-francese non badò a spese, nonostante la pellicola fosse in bianco e nero, grazie a un cospicuo finanziamento, al quale partecipò anche – pare – il Vaticano: particolare cura nei costumi, centinaia di comparse sui luoghi delle riprese, sia a Rivoli e Ceraino, sia all’Arena di Verona e a Roma, e un cast stellare, Gino Cervi, i francesi Henri Vidal e Michèle Morgan, Rina Morelli, Paolo Stoppa, Sergio Tofano.

Il film venne a costare mezzo miliardo di lire dell’epoca, ripagate da un grande successo di pubblico e quindi di botteghino: al 31 dicembre 1952 aveva già incassato quasi 514 milioni, ai quali vanno aggiunti i diritti per le edizioni uscite negli Stati Uniti, in Francia, Danimarca, Finlandia, Svezia, Filippine, Australia, Giappone. La disponibilità di danaro era palpabile anche nella paga assai generosa delle comparse, come ricorda Ottavio, assoldato anche lui come comparsa in Fabiola assieme alla madre: «Alla sera dovevamo consegnare i costumi, per evitare che qualcuno facesse il furbo e se li portasse a casa, e loro ci davano la paga: 1.200 lire ogni giorno, non ci pareva vero in quegli anni difficili. Lo stipendio mensile di un operaio era al massimo di 20.000 lire. Le riprese sono durate una ventina di giorni. Sulla sponda sinistra dell’Adige era stato allestito il porto, ed è qui che entrò in scena mia madre, che impersonava la mamma del protagonista. Le comparse venivano da Ceraino, da Dolcè, da Rivoli. Eravamo un centinaio nelle scene di massa, io vestivo i panni di un gladiatore».

Tempi lontani che affiorano oggi con struggente nostalgia, proprio come in un film, nella memoria di questo ultimo testimone rivolese della classe 1922. Cento anni e non sentirli. Il conteggio riprende dal numero uno. Lunga vita ancora a Ottavio!

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